La prima notte
quando il cielo era a metà strada dal solito
Il motore scaracchiava, con ruggiti sempre più rari, sempre meno convinti. Non girava tondo. 6 cilindri a benzina che arrancavano, bollenti. All’altro capo della cabina surriscaldata Franco aveva intonato per l’ennesima volta la sua litania preferita, per la verità l’unica da qualche giorno… Gianca, ma che casso femo qua? Me manca i risotini de me mama, el panin buro e marmeata, el bidè… vojo tornar a casa. Cristo ancora ‘sta solfa.
Ero stufo di sentire le sue lagne. Davanti a me l’Unimog guidato da Sergio e Khadi ag Becha rosicchiava chilometri alla pista che porta a Djanet, inesorabile, visione evanescente nella polvere. Alla retroguardia un altro Unimog, pilotato da Paolo, seguiva evanescente nella mia polvere. Intorno le montagne dell’Hoggar. Nere, aspre, impassibili.
Mi sorpresi a pensare a quest’ultimo periodo della mia vita. Alla faccia incredula di Fiore, mia moglie, quando annunciai che attaccavo la chitarra al chiodo e partivo per…dove?…boh, non so… per il Sahara insomma.
Un film. Aereo in avvicinamento alla costa, mi sembra di sentire tamburi lontani, mi vengono in mente i racconti di Salgari.
L’aereo tocca la pista, sacchetti impigliati su ciuffi d’erba bruciata. Dappertutto. Oddìo è questa la prima immagine dell’Africa che sono destinato a ricordare per tutta la vita?
Aeroporto nel caos per uno sciopero. Un bordello. Gente in vestaglia che vaga su un tappeto di bagagli, un asciugamano od una sciarpa in testa, a mo’ di turbante. Imprecazioni incomprensibili. Insulti. Un inferno.
Quartiere Lavigerie, periferia di Algeri. Casermoni, urla di ragazzini, profumi grevi di aglio, cumino, soffritto di cipolle e scarichi di fogna. Buio appiccicaticcio. Scala con escrementi, piscio, attento a dove metti i piedi e non appoggiare la sacca… Toc toc. Avanti!…La porta si spalanca come un sipario su un tavolino affogato in nembo-strati di fumo denso. Una lampada, bassissima, taglia i profili di Giorgio e Fifì rapiti dai dadi. Lei in mutande e reggipetto tinta carne, coi bordini lustri, come usava mia madre. Un bel par di tette. Lui in mutandoni ascellari bianchi, di quelli con lo spacco di fianco per tirar fuori il coso e pisciare. Gigantesco, biondo, con baffoni e pancione. Obelix.
Un film. Sono in un film, indeciso tra Casablanca e un cupo noir alla Jean Gabin.
Un periodaccio in realtà, ad inseguire questo e quello, con la precisa sensazione di fallimento incombente, inchallah domani, pas de problèmes… Pas de problèmes?!
Si mangiava due volte a mezzogiorno, due volte la sera. Tutti i giorni che dio manda in terra. Perché Fifì preparava puntualmente i pasti a casa di Ciccio. Ma poi si tornava regolarmente, io e Giorgio, a casa della moglie, scusa il ritardo, che c’è di buono?…vi ho preparato una cosa speciale…
Cazzo, spesso era la stessa cosa ingurgitata neanche un’ora prima. Dio che stress!
Ho resistito il più possibile, per solidarietà, prima di dare le dimissioni da copertura. Poi ho gettato la spugna. Stomaco e fegato ormai rifiutavano anche solo l’idea della doppia chekchouka o, peggio, del doppio cous-cous.
Un giorno Giorgio mi disse che aveva mollato Fifì, che non se ne poteva più. Dài, andiamo a pesca? Avevo accettato con entusiasmo, mi cambiava la vita… ma che delusione! Andare a pesca per Giorgio voleva dire bighellonare in macchina davanti all’Università per prendere all’amo giovani studentesse compiacenti che avrebbero messo in ballo il culo per arrivare vergini al matrimonio. Allora ci si vedeva la sera, dopo il mio lavoro e la sua partita di pesca, ed erano i momenti più belli. La baia di Algeri sfavillava imperiale sul mare ed una brezzolina coquine annunciava i profumi della notte mediterranea. Sardine alla brace con prezzemolo e harissa dal pied-noir di Fort de l’Eau, crevettes gigantesche à la provençale alla Madrague, Blanc de Blanc et Pelure d’oignons ghiacciati per annaffiare il tutto …e la notte scorreva via tepida e maliziosa.
Ramadan. Pure il mio primo ramadan mi son fatto ad Algeri. Non si fuma, non si beve, non si mangia, non si tromba…durante il giorno. Aggiungerei non si lavora. Manco gli infedeli come noi possono bere o fumare. Sconsigliato. Perché facciamo venir voglia, istigando al peccato. Eh già, ma loro dovrebbero vederci per provare tentazione, invece dormicchiano tutti, stravaccati qua e là. Prova ad andare in un qualsiasi ufficio…hanno oscurato con fogli di giornale pure i vetri delle porte, ogni pertugio che possa svelare al pubblico la reale attività quotidiana. Un giorno ho spiato dal buco della serratura…mollemente steso su di una scrivania un uomo in calzini ronfava beato. Poteva essere il tizio con cui avevo appuntamento?
Giorgio sostiene che il mondo islamico è in ritardo esattamente di 104 anni, tot mesi e qualche giorno. Ah sì?… Sì sì, è la somma di tutti ramadan dall’Egira ad oggi…
Al tramonto manco un gatto trovi per strada, puoi filare a 120 all’ora sulla Didouche Mourad senza pericolo. Un gusto! Come essere in Formula 1 a Montecarlo, circuito cittadino si dice, stessa cosa. Son tutti a casa, col cucchiaio in mano, ad aspettare il fatidico colpo di cannone davanti alla zuppa fumante. Poi via, a fare shopping e baldoria per buona parte della notte. E prima dell’alba drinn drinn drinn a Lavigerie, in tutta Algeri. Sveglie che suonano dappertutto. Tramestii nell’appartamento di sotto, di sopra, a fianco, di fronte…se magna, per l’ultima volta stanotte. Poi a nanna, fino al tramonto.
Che forza! Giorno e notte invertiti per un mese all’anno. Non l’ho mai capito ‘sto gioco. Tutti quelli che viaggiano regolarmente tra Europa e Stati Uniti, o più in là ancora, si trovano per via di fuso nella stessa situazione. Ma non per questo si guadagnano il paradiso. Ma già, ai tempi di Maometto chi sapeva dell’esistenza di un altro mondo? chi poteva mai immaginare che un giorno qualcuno avrebbe inventato un modo per accorciare le distanze?
Poi era arrivato il giorno della partenza, verso il Grande Sud, Tamanrasset, il Centro del Sahara. Mi aveva raggiunto ad Algeri l’équipe di pronto intervento, carica di pezzi di ricambio per i camion Mercedes Unimog già sul posto. Ho ancora davanti agli occhi il volto tondo e rubizzo di Raffaele, meccanico, sudato e paonazzo per lo sforzo di portare con nonchalance 4 ammortizzatori come fossero piume, giusto per non pagare l’eccedenza bagaglio. E Franco poco più in là, alla dogana, qu’est-ce qu’il y a là-dédans, monsieur?…con una faccia di tolla: des choses… Des choses?!
L’aereo aveva sorvolato la parte orientale del Grande Erg Occidentale, dune a stella, spettacolari. Come tops di crema scodellati all’infinito. Poi il massiccio dell’Atakor, picchi di lava neri, carbone. Ci aspettava Maurizio, tutto in nero, braghe alla tuareg, sandali, barba lunga. Riunione immediata all’hotel Tahat. Punto della situazione, priorità degli interventi. Lui era stato il primo a partire da Venezia con un Unimog. Danni?…bla, bla, bla… Domande?…bla, bla… Dove si dorme stanotte? Al campeggio…Ah!… Domani rimboccarsi le maniche, si comincia. Tutti in officina dell’Altour… Mmmh che programmino! Erano passati così 20 giorni. Campeggio officina, officina campeggio.
La prima sera: chi sa dov’è il cesso? Laggiù, ma non aprire la luce… Perché? Troppo tardi. Il bagliore improvviso della lampadina appesa aveva messo in moto una miriade di scarafaggi rossi, enormi, che salivano e scendevano nel buco, impazziti. Ti conviene cagare al buio…occhio non vede… Cristo!
La prima frase dei profani in officina: candele? ci sono candele nel motore? Raffaele non aveva manco risposto. Si era limitato a guardarci con disprezzo misto a commiserazione.
Il primo pasto. Ed anche il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, etc etc: cous-cous, l’odiatissimo cous-cous. Le maledettissime pallette di farina bagnate nella brodaglia di poche verdure lesse. Uniche 2 varianti in 20 giorni quaglie in scatola del Cile (ne avevamo un camion pieno) e un riso asciutto con piselli in scatola versati sopra, leccornia questa preparata da Claudia. Quel giorno Sergio aveva tirato un calcio alla pentola facendo volare riso e piselli su per il muro di fango dell’officina. Claudia offesa.
Avevo però imparato la meccanica, e in modo egregio mi sembrava. Mi guardavo le mani, luride di olio nero, unghie spezzate, nocche sbucciate, un taglio. Solo qualche mese prima erano impeccabili, curatissime. Mani da musicista.
Messaggio da Venezia, via telex, quella specie di carrarmato sferragliante che si mangia nastri di carta bucherellata: primo gruppo da Djanet a Tamanrasset. Orpo che organizzazione! Chi è il genio? Siamo tutti a Tam, all’altro capo del Sahara algerino.
Così eccoci qua, sulla pista che mena a Djanet, con i mezzi carichi di ogni cosa. Davanti Sergio con Khadi che gli indica la retta via, io che arranco con Franco che brontola e Paolo con Roberto a chiudere la carovana. Le ore passano, tra sobbalzi, polvere, motore in ambasce, risotin dea mama, panin buro e marmeata, bidè. E viene sera. L’imbrunire stringe il cuore. Lontano, verso est, il vulcano Tellerteba perde ormai la sua maestosa prestanza tra le dita oscure della notte.
Bando alle ciance. Domani ci sono le dune dell’erg d’Admer da scavalcare. Me le sogno. Dobbiamo ridare energia al mio motore. Sarà la boccola che abbiamo infilato su per il buco della quinta candela per rimediare alla filettatura rovinata? Sfiata? Manca di compressione?… maccheccazzonesò. Carburazione. Secondo me è la carburazione. O le puntine.
Si accende una lampada a gas. Chi mette su una pasta? Noi facciamo un giro per veder di risolvere il problema. Sergio sale al posto di Franco, apriamo il motore situato proprio in cabina. Dài, corri!
La piana infinita è proprio piana, un biliardo. Accelero al massimo, il motore urla e sputacchia, Sergio col cacciavite in mano regola in corsa la miscela d’aria e benzina. Va. Non va. Peggio che andar di notte. Così. Ecco, così. Ancora mezzo giro.
Mi pare vada meglio. Giro il camion. Avremo fatto forse 5 o 6 chilometri, sempre diritto, fari accesi ad illuminare nulla. Buio. Il vuoto. Dove sono gli altri? Mi manca il fiato, il cuore perde un colpo. Spengo i fari, spengo il motore, scendo. Silenzio assoluto. Nero pesto, manco la luna.
Dio mio, è da infarto. Il cielo è a metà strada dal solito. Lo tocco. E’ un buio luminoso, una cappa di velluto nero tutta bucherellata. Un colabrodo. Cosa mi succede? Soffoco. Mi perdo, annaspo in miliardi di anni luce, annichilito da misure inconcepibili, da numeri chilometrici, ubriaco di spazio. Mi sento una cacchina microscopica, assolutamente insignificante. Che io ci sia o non ci sia è del tutto irrilevante. Conto meno di un granello di sabbia in Sahara. Mi accascio sulla sabbia. Annientato, ucciso, finito.
Poi risorgo, piano. Piano. Bevo avidamente bellezza, potenza ed immensità. Ed ogni mia cellula vibra insieme all’infinito pulsante, vivo. VIVO! Smembrato in infinite particelle vago tra le galassie, le nebulose, i buchi neri… stelle, stelline, pianeti e supernovae. Sfioro la bella nebulosa di Orione, la gigantesca Aldebaran, buco le nubi di Perseo, su, verso Andromeda, verso la meravigliosa spirale di M101. Che bellezza!
Il magone che mi attanaglia la gola e due lacrimoni mi riportano a terra. Il silenzio del vuoto assoluto rintrona ancora nei miei orecchi. Mi sento talmente posseduto da tale energia che ho paura di scoppiare. Non posso contenere tutto questo. Mi gira la testa.
Sergio ha capito e tace, l’eterna sigaretta tra le labbra.
Come si fa a tornare? Dove sono i ragazzi?…Beh, è facile, basta seguire le tracce. Ovvio. Riaccendo motore e fari ma giro a vuoto, ancora ubriaco. Ah, ecco.
Una stellina. Sì, una stellina tra tante è la nostra lampada a gas, lontana, bassa sull’orizzonte indefinito, impalpabile. Eccola.
La mia prima notte in Sahara. Non a Tamanrasset… ma qui, nel deserto vero, il più grande, il più bello, il più puro. Avvolgente e coinvolgente, violento e tenero.
La mia prima notte, anno domini 1978. Un amore per sempre.
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